Esistono molti modi di reagire ad un evento che segna irrimediabilmente il corso di un viaggio. C’è chi decide di andare avanti, chi di tornare indietro e chi di maledire la sorte per ciò che è successo.
Un viaggio interrotto rappresenta uno shock. Aspettative che si infrangono, sogni rimandati, esperienze negate. Ma è davvero tutto così negativo come potrebbe sembrare?
Ecco cosa è accaduto a noi quando il Coronavirus ci ha raggiunti in India, costringendoci a stravolgere i nostri piani e a cambiare totalmente il nostro modo di viaggiare.
Un viaggio in India sognato da anni
Eravamo già stati in India altre volte e, in quel momento, rappresentava solamente il punto di partenza di un viaggio che sarebbe dovuto durare mesi. Dall’India saremmo voluti andare in Thailandia e poi in Myanmar. Paesi che non avevamo mai visto, che stavamo sognando da una vita.
Avevamo programmato la partenza da mesi. Se viaggi e sei abituato a navigare in rete ti sarai sicuramente imbattuto, presto o tardi, in uno di quegli articoli che ti esortano a lasciare il lavoro, vendere la casa e partire per una destinazione lontana. Le loro parole sembrano dire che non solo si tratta di un sogno alla tua portata, ma che è tuo dovere morale provarci.
Sognavamo un viaggio a lungo termine da molti anni, ma avevamo sempre dato la priorità al dovere. Sembrava che invece molti altri ragazzi, giovani o meno, avessero deciso di non rimandare i loro progetti. “Non fare domani quello che puoi fare oggi” dicevano. Avevano ragione loro, ci siamo detti. Non aveva senso aspettare una fantomatica pensione che, forse, non sarebbe mai arrivata.
E così l’abbiamo fatto anche noi. Abbiamo fatto esattamente quello che tanti articoli sul web consigliavano. Abbiamo reciso due contratti fissi, ci siamo dati da fare per riuscire ad avviare due attività online che ci permettessero di lavorare viaggiando e abbiamo scelto il Paese da cui saremmo voluti partire. India.
Il 2020 sarebbe stato l’anno giusto per iniziare quel viaggio nel mondo che non volevamo più rimandare.
Una partenza incerta
Dopo il primo focolaio in Italia, ogni nazione ha iniziato a porre dei divieti o dei controlli all’atterraggio per evitare la diffusione del virus nel proprio Paese. Nei gruppi creati su Facebook dai viaggiatori per scambiarsi informazioni e consigli, l’unico argomento di cui si discusse in quei giorni furono le limitazioni alle partenze.
La misura precauzionale scelta dall’India per prevenire l’ingresso del virus era il controllo della febbre una volta che i passeggeri fossero scesi dall’aereo, prima di passare allo step dei documenti. Nel caso di riscontro positivo, i soggetti interessati sarebbero stati sottoposti a quarantena per un periodo di 14 giorni in una struttura sanitaria in loco.
Durante quel periodo i tuor operator hanno iniziato a cancellare i viaggi in partenza e la vita dei viaggiatori ha subito la prima trasformazione. Noi, dopo attimi di pura indecisione, abbiamo calato la nostra carta e abbiamo rischiato la partenza. Quattro giorni dopo l’India avrebbe vietato l’ingresso ai viaggiatori provenienti dall’Italia.
Nel Paese la vita stava trascorrendo normalmente. Gli esercizi commerciali accoglievano ospiti, le visite guidate erano consentite e le comitive di turisti affollavano ancora i siti di interesse culturale. In quel momento ci siamo sentiti fortunati, ci eravamo lasciati alle spalle una situazione di crisi ed incertezza per trascorrere le nostre giornate in un Paese pronto ad accoglierci.
Purtroppo quel picco di felicità è durato poco.
L’arrivo del COVID-19 in India
Il 28 febbraio un medico di Codogno ha avvertito i primi sintomi di malessere a Jaipur, dopo essere stato nel Rajasthan e ad Agra insieme alla comitiva di amici con i quali si era recato in India. La notizia si è sparsa per la nazione e di colpo, quel Paese che sembrava inizialmente ospitale, cominciò a considerare gli italiani come un popolo da evitare.
Il 4 marzo siamo arrivati a Jaipur e abbiamo affrontato innumerevoli difficoltà prima di riuscire a trovare un hotel che, con riluttanza, ha deciso di accettarci. I viaggiatori italiani, prima di tutti gli altri, venivano additati nelle strutture e lungo le strade. Il mantra che proveniva dai commercianti seduti all’ingresso dei negozi era sempre lo stesso “Da quale Paese venite?”.
Il 9 marzo è stata l’ultima giornata in cui siamo riusciti a vivere l’India con i suoi colori, i suoi canti e le urla degli abitanti. Erano i giorni dell’Holi festival. Quella sera, in Italia, Giuseppe Conte stava annunciando agli italiani che il giorno dopo un nuovo decreto avrebbe sancito l’inizio del lockdown, il periodo di isolamento per i cittadini nelle proprie case e di chiusura della maggior parte delle attività commerciali.
Il 10 marzo abbiamo deciso di rifugiarci all’interno di un ashram a Vrindavan perché nessuna struttura apriva più le proprie porte agli italiani.
Le compagnie aeree stavano riducendo sempre più il traffico di rientro in Italia e noi ci siamo trovati di fronte a quella scelta che non avremmo mai voluto fare.
Avevamo sognato quel viaggio per anni e ora dovevamo decidere se rimanere chiusi nell’ashram per un numero imprecisato di mesi oppure se rientrare. Abbiamo deciso di tornare a casa.
Il 16 marzo siamo arrivati in auto a Delhi dove abbiamo preso il volo che ci ha portati a Roma, l’unico aeroporto rimasto attivo per i voli civili. Da lì abbiamo risalito l’Italia fino a Bologna con Italo per poi cambiare altri due treni e arrivare a casa.
Il silenzio dell’Italia
Ci trovavamo catapultati in quello che appariva come un palcoscenico allestito con la scenografia e pronto ad accogliere gli attori. Ma questi non sarebbero arrivati.
Abbiamo attraversato l’Italia soli. La sera del 17 marzo, quando sono rientrata in casa, mi sono avvicinata alla finestra del bagno e l’ho aperta.
Lì per lì ho controllato di avere effettivamente scostato i vetri perché quello che sentii dopo fu il suono del nulla.
Niente più clacson, vociare di sottofondo dei passanti e muggiti di mucche lungo la strada. Avevamo lasciato un Paese in cui il silenzio era un lusso che si poteva permettere solo la fascia ricca della popolazione per trovarci di fronte a quella campagna italiana in cui non si sentivano nemmeno le api ronzare.
Un brivido mi percorse violentemente la schiena e per giorni non riuscii ad accettare la mancanza di movimento.
Settimane dopo ci siamo trovati uno di fronte all’altro a chiederci cosa fare della nostra vita perché, in quel momento, l’unico grande sogno che avevamo era andato in fumo. Così ci siamo trovati d’accordo di fronte ad una decisione che ha stupito entrambi.
Perché non viaggiare in modo più lento?
Non sapevamo quando avrebbe ripreso il traffico aereo o quando avrebbero riaperto gli hotel e i ristoranti. Abbiamo trascorso tutto il periodo del lockdown senza uscire di casa, ma cercando il mezzo di trasporto che ci sarebbe servito una volta terminato il periodo di isolamento.
Così lo abbiamo trovato, il nostro primo van.
Abbiamo visto solo lui, la nostra prima e unica scelta. Ci è piaciuto e l’abbiamo portato a casa. Qualche giorno dopo gli abbiamo dato il suo nome: Jack.
Non sapevamo nulla di come si gestisse un camper. Abbiamo cercato informazioni su tutti i gruppi di camperisti. Dovevamo capire dove sostare, come gestire la luce, come riempire e svuotare le vasche delle acque.
Era tutto nuovo per noi, ma ha rappresentato la sfida più grande di tutte.
Ci siamo rimessi in gioco, abbiamo accettato che il destino avesse scelto un’altra strada per noi e abbiamo deciso che i nostri successivi viaggi sarebbero stati così, più vicini a casa, più lenti, ma anche più intensi.
Tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita la vanlife
È bastato un weekend in montagna per far diventare un’abitudine ciò che ci sembrava impensabile. Tutte quelle spie e quelle piccole attività da fare quotidianamente sul van sono diventate una routine.
Pensavamo che sarebbe diventato un ripiego alla vita che volevamo e invece ci siamo trovati travolti da un’esperienza che ci ha uniti molto.
Jack è diventato il nostro ufficio, la nostra casa e il nostro mezzo di trasporto.
Ci siamo scoperti felici nel poter cucinare a ogni ora del giorno, poterci fermare dove volevamo, dormire quando eravamo stanchi o uscire quando volevamo esplorare il mondo.
La vita non va mai come la programmi. A volte, va meglio.
vanlife
Giuseppe
27 Luglio 2020Bel post!
Vi ho trovato per caso su Internet ed inizierò a seguirVi!
Buon viaggio!!